C’è un argomento, che non c’entra assolutamente niente con il cinema che mi sta particolarmente a cuore: le automobili.
Pausa drammatica. Un po’ di reazioni stupite, grazie.
Sì, ecco, non è che mi interessino le automobili in sé, anzi il contrario. Mi interessa l’impatto sulla società, sull’ambiente e sull’urbanistica che hanno avuto e che stanno ancora avendo, ahimè. In breve, se le auto scomparissero domani dalla faccia della terra, ne sarei felice. E parlo da persona che non vive in città, che usa l’auto per gli spostamenti quotidiani.
Sogno un futuro car-free, dove possedere un’auto sia una scelta, non una necessità (spesso anche sociale). Siamo in periodo di elezioni mentre scrivo queste righe, quindi sento parlare spessissimo di parcheggi, interventi sulle strade per diminuire il traffico e io non posso fare a meno che rabbrividire ogni volta. Cioè, vogliamo diminuire il traffico allargando le strade? Seriamente? Un po’ come dire che voglio ridurre il tempo che la gente passa sui social, allungando le giornate. Non ha senso. Vuoi ridurre il traffico? Riduci le macchine.
Vota Stefano.
Ok, dopo questo pippone veniamo a noi. Per affrontare questo argomento attraverso il cinema ho deciso di parlarvi di tre film italiani che hanno descritto, secondo me, la nascita e il declino dell’automobile come status symbol.
L’automobile e il cinema italiano: tre film da non perdere
Piccolo disclaimer: farò molti spoiler, ma insomma, il film più recente di cui parlerò è uscito 45 anni fa, quindi non credo che qualcuno si straccerà le vesti come accadde per gli spoiler dell’ultimo libro di Harry Potter.
Il Sorpasso (1962)
Il Sorpasso è senza dubbio il titolo più celebre della terzina che ho scelto. Diretto da Dino Risi e considerato tuttora il suo capolavoro (personalmente preferisco I mostri o La stanza del Vescovo). Non solo è stato girato nell’Italia del boom economico, ma l’intero film può essere letto come una metafora di quel periodo storico.
Accompagnati da St. Tropez Twist e Guarda come dondolo, il film ci porta nella Roma deserta di ferragosto, dove Bruno, interpretato da Vittorio Gassman è alla ricerca di un telefono pubblico e un pacchetto di sigarette. Disturba Roberto, Jean-Louis Trintignant, rimasto a casa a studiare per gli esami universitari.
Roberto si fa sedurre dall’irruenza di Bruno e accetta di partire con lui sulla sua auto in direzione di Castiglioncello. Il viaggio sarà una sorta di iniziazione per il timido Roberto che verrà catapultato nella dolce vita degli anni ‘60 e nell’universo caotico di Bruno. L’epilogo lo conosciamo un po’ tutti: durante l’ennesimo sorpasso azzardato, i due finiranno fuori strada. Roberto morirà nella scarpata, mentre Bruno si salverà venendo sbalzato fuori dall’auto prima della caduta.
Il film, come dicevo, può essere considerato una metafora del boom economico degli anni ‘60, incarnata dalla figura dirompente di Bruno. Il personaggio doveva essere interpretato da Alberto Sordi. A cui voglio bene, eh, ma grazie al cielo che poi hanno ripiegato su Gassman. A parte il gusto personale, il suo atteggiamento istrionico e il suo aspetto rappresentano perfettamente la società menefreghista, godereccia e consumista che stava schiacciando tutte le altre classi sociali. Non a caso è Roberto, la classe media un po’ tradizionalista, che alla fine ci rimette la pelle e Bruno dirà ai poliziotti di non conoscere neanche il suo cognome.
Non è un caso che la pellicola si focalizzi su un viaggio in auto, trasformandosi in un road movie che finisce in maniera tragica: l’auto era il simbolo della società consumistica che si stava arricchendo, sinonimo di benessere vero o illusorio. L’auto diventa, appunto, uno status symbol.
L’automobile (1971)
Questo ci porta alla prossima pellicola. Si tratta dell’episodio della miniserie (non televisiva, per l’amor del cielo, sennò Anna Magnani si rivolta nella tomba) di film intitolata Tre donne di Alfredo Giannetti. L’episodio in questione è il terzo, L’automobile.
Anna, interpretata da Anna Magnani, è un’ex-prostituta ormai matura conosciutissima nella vita notturna romana e soprannominata per questo “Contessa”. Fa una vita serena, anche dal punto di vista economico, ma sente un vuoto che cercherà di colmare prendendo la patente e con l’acquisto di un’automobile.
Dopo aver fatto qualche conto per riuscire a permettersi l’acquisto e a pagare un amico per le lezioni di guida, Anna riesce a comprarsi l’auto che comincia a curare ossessivamente, addirittura sorvegliandola di notte per paura di furti. Decide di fare un viaggio a Ostia per festeggiare e sulla spiaggia incontra un coppia di giovani a cui accetta di dare un passaggio. Il più spavaldo dei due però insiste per guidare, cominciando a fare sorpassi azzardati e invasioni di corsia. Il tutto termina, logicamente, con un incidente in cui l’auto viene distrutta e il giovane rimane gravemente ferito. L’incidente blocca il traffico e gli automobilisti in fila cominciano a perdere le staffe, decidendo di spostare di peso l’auto fuori strada, ribaltandola. Anna chiude il film seduta sull’auto dicendo a sé (e al pubblico): «ma qui siamo diventati tutti matti!»
È il 1971, quasi dieci anni dopo Il Sorpasso a cui sicuramente L’automobile si ispira molto, ma la critica si inasprisce. È esemplificativo il finale, in cui Anna è l’unica a preoccuparsi del ragazzo ferito, mentre tutti vogliono liberare la carreggiata per rientrare a casa. Quel “siamo diventati tutti matti” finale, non è soltanto una critica alla società frenetica, ma anche al consumismo: lo dice un po’ tutti, a noi, agli automobilisti ma anche a se stessa che ha speso gli ultimi risparmi per comprarsi un’auto. Un bisogno imposto dalla società che finisce per diventare un’ossessione e a creare più problemi di quelli che effettivamente risolve.
Si chiede, insomma: siamo sicuri che questa sia la vera libertà che vogliamo?
L’ingorgo (1979)
Chiudo con L’ingorgo, un film del 1979 di Luigi Comencini davvero poco conosciuto. Forse non è neanche il migliore del regista, però vanta un cast incredibile: Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni, Stefania Sandrelli, Gianni Cavina, Ciccio Ingrassia, Fernando Rey e altri duecento attori che non conosco (tra cui il cugino di Moira Orfei).
La vicenda inizia sul Grande Raccordo Anulare, dove si sviluppa uno spaventoso ingorgo che blocca completamente la circolazione stradale, obbligando migliaia di automobilisti a rimanere bloccati per 36 ore nel traffico. Grazie a questa premessa surreale, ci avviciniamo a molte storie diverse: c’è un divo del cinema (Mastroianni) che viene corteggiato da tutti e poi viene ospitato da una coppia con una casa fatiscente e questi cercano di ottenere un lavoro nel cinema grazie a favori (anche sessuali, con Stefania Sandrelli sempre bellissima); c’è un ricco avvocato che cerca di cavarsela con il denaro e la corruzione (Sordi); un paio di coppie in crisi, una giovane hippie, dei delinquenti. Insomma, è tutto un gran bordello di cui mi è impossibile raccontare tutte le sottotrame in maniera esaustiva. Inoltre si tratta di storie piuttosto slegate, quindi è anche molto difficile tirare una linea narrativa che vada dall’inizio alla fine.
Però è interessante, di nuovo, la critica sociale: il film mostra come in una situazione così estrema, di tensione e di convivenza forzata, l’uomo ceda ai suoi istinti più bassi (violenza, pulsioni sessuali, egoismo, corruzione). Siamo al termine degli anni ‘70 e nel film vengono mostrati tutti i movimenti giovanili, i tumulti, gli scontri di un’Italia vicina al collasso. L’immagine di uno sfasciacarrozze che accumula rottami di auto rappresenta probabilmente il consumismo degli anni del boom comincia lentamente a crollare.
E nuovamente troviamo il simbolo dell’automobile, che, anche in una situazione quasi catastrofica, tiene tutti separati nei loro piccoli cubicoli individualisti. Ognuno con i suoi piccoli obiettivi egoisti e ognuno completamente disinteressato nei confronti dei problemi degli altri. Possiamo dire che la critica è ancora più dura rispetto a L’automobile, o quanto meno si arricchisce di questa sfumatura in cui l’auto viene vista come simbolo dell’individualismo e dell’egoismo.
Conclusioni
L’automobile e il cinema italiano hanno un rapporto che non si esaurisce a questi tre titoli e a questa breve critica. Come dimenticare la Bianchina di Fantozzi? Oppure la follia metropolitana descritta da Monicelli in uno dei miei film preferiti Un Borghese piccolo piccolo, incarnata dalla piccola Fiat 500 incastrata nel traffico del centro di Roma?
È interessante notare come l’auto assuma quasi sempre un valore che va al di là del semplice mezzo di trasporto. Aiuta a descrivere i personaggi, la società e, a volte, nasconde anche una critica più profonda e aspra come abbiamo visto.
Ricordo sempre l’entusiasmo alle prime lezioni di filosofia a scuola, quando mi rendevo conto che molti dei piccoli ragionamenti che faceva la mia testa da adolescente problematico trovassero riscontro nel pensiero di persone vissute migliaia di anni prima di me. Lo stesso fascino lo provo quando scopro che problemi moderni e attuali sono stati trattati da autori e registi cinquant’anni fa. Lo ritengo un sintomo di un’opera che ha resistito al passare del tempo e che resterà attuale, almeno nella sua riflessione, ancora tra migliaia di anni.
E dopo questi ragionamenti profondi, lasciamoci con la Signorina Silvani.