«La commedia all’italiana è questo: trattare con termini comici, divertenti, ironici, umoristici degli argomenti che sono invece drammatici. È questo che distingue la commedia all’italiana da tutte le altre commedie…» Mario Monicelli
Nella citazione di Monicelli sono racchiusi vent’anni della storia del cinema italiano: un periodo che ha inizio con l’uscita di Divorzio all’italiana di Pietro Germi, nel 1961, e che trova il suo epilogo nel 1980 con La terrazza di Ettore Scola.
Divorzio all’italiana (1961)
Pietro Germi, regista e co-sceneggiatore del film, riesce a convertire la drammaticità del romanzo dal quale trae ispirazione, Delitto d’onore di Giovanni Arpino, in una divertente commedia satirica. La sua denuncia è rivolta ad un’Italia in cui la mancanza di una legge sul divorzio viene bilanciata dalla presenza di un’altra sul delitto d’onore (abolita solo nel 1981!).
La trama
Agramonte, Sicilia. Il barone Ferdinando Cefalù, detto ‘Fefè’, è sposato con Rosalia, una moglie tanto piena d’amore per il marito, quanto insopportabile.
Fefè, avendo perso ogni interesse per la moglie, si innamora di sua cugina, Angela. I due si dichiarano ma non esiste (ancora) un modo per svincolarsi dal patto coniugale. O forse sì: il barone Cefalù inizia ad architettare il suo piano secondo il quale basterebbe trovare un amante per Rosalia, passare da ‘cornuto’ (citando il film) e far fuori la moglie. La soluzione è dunque il delitto d’onore. Resta un problema: come farsi tradire da una moglie che ha occhi solo per il marito? Di questo si occuperanno Fefè e la brillante sceneggiatura che è valsa una statuetta degli Oscar al nostro paese.
Con Divorzio all’italiana ci troviamo davanti alla classica ‘beffa’ all’italiana: un uomo che cerca aiuto nella legge per infrangerla! Ed è proprio questa ironia, celata dietro la trama, che ha fatto sì che la pellicola venisse tanto acclamata.
Sebbene si possa avere l’impressione di guardare un film prettamente comico, in realtà tratta di un tema molto delicato: il divorzio. O meglio, la mancanza di una legge sul divorzio in un paese in cui un marito può legittimamente uccidere la moglie (e viceversa).
Gli sceneggiatori: Ennio De Concini, Alfredo Giannetti e Pietro Germi
Ennio De Concini (1923-2008)
È stato battezzato come il padre della fiction italiana, avendo scritto il primo episodio della serie La piovra (1984-2001), la serie italiana più famosa nel mondo. Come se non bastasse è autore di oltre 150 sceneggiature, passando dall’horror alla commedia, dai kolossal al melodramma… insomma, una penna piuttosto prolifica!
Alfredo Giannetti (1924-1995)
Inizialmente debuttò come regista, ma il successo arrivò qualche anno più tardi come sceneggiatore per le serie Rai quali La famiglia Benvenuti (1968-70) e Le tre donne (1971) con Anna Magnani.
Pietro Germi (1914-1974)
Viene ricordato come uno dei più importanti esponenti della commedia all’italiana: l’espressione stessa è da considerare una ‘parafrasi’ della sua pellicola, nonché suo grande successo. Divorzio all’italiana è il film che ha sancito la nascita di un nuovo genere cinematografico.
Morì nel ‘74, poco dopo aver iniziato a lavorare al progetto di Amici Miei, che decise di lasciare nelle mani consapevoli dell’amico Monicelli. Il film uscì nelle sale l’anno seguente: “Un film di Pietro Germi” leggiamo nei titoli di testa, e solo “Regia di Mario Monicelli”.
La formula segreta per una sceneggiatura di successo
Questi tre personaggi (De Concini, Giannetti e Germi), perlopiù sconosciuti al pubblico, sono stati gli unici italiani nella storia ad essersi accaparrati un premio ad Hollywood come sceneggiatori.
Ma perché è stata premiata la sceneggiatura di questo film? Per elencare tutte le caratteristiche di un copione ‘ben riuscito’ avremmo bisogno di un altro articolo, perciò vorrei soffermarmi su un fattore, a mio avviso indispensabile. Sto parlando della caratterizzazione dei personaggi, una delle fasi che precede la stesura della stessa sceneggiatura. Ma che cosa significa? Beh, vuol dire che ogni personaggio deve essere reale anche sulla carta (o almeno pretendere di esserlo). Deve avere valori, pensare in un certo modo, avere dei ‘modi di fare’. In breve, un personaggio deve essere credibile come persona, altrimenti lo spettatore non riuscirà a empatizzare con lui. Questo è quello che accade assistendo alle vicende del nostro Fefè. Noi spettatori sappiamo che il suo piano è ignobile ma, conoscendolo, abbiamo scoperto che ci sta simpatico e soffriamo con lui ogni volta che la storia prende una brutta piega. Infatti alla fine di un film, quando i personaggi sono descritti come si deve, abbiamo la sensazione di aver assistito alle vicende di persone a noi vicine, che abbiamo imparato ad amare (o ad odiare!).
Per concludere in bellezza, lascio che sia il nostro caro Alfred Hitchcock a corroborare la mia tesi: “Per fare un buon film servono tre cose: la sceneggiatura, la sceneggiatura e la sceneggiatura!”.