Il Nosferatu del 2024 di Eggers cerca di “elevarsi” rispetto ai predecessori, finendo però per essere poco più di una canzoncina di sottofondo in un lounge bar. Ma fatemi spiegare meglio.
Immaginate la scena: entriamo in un bar, luci soffuse, atmosfera elegante. Ordiniamo da bere, ci siediamo e mentre arrivano gli stuzzichini, sentiamo in filodiffusione una melodia riconosciuta. È uno di quei brani evergreen degli anni ottanta, ma non è l’originale: si tratta di una cover cantata da una cantante sconosciuta con una voce un po’ soffiata e nasale.
Ovviamente è due volte più lenta della canzone originale perché i brani dance non sono abbastanza sofisticati per chi si sta per sfondare di superalcolici serviti con una decorazione fatta con un cetriolo.

Il Nosferatu di Eggers
L’horror è così poco raffinato
Ecco, questo è quello che ho provato guardando il nuovo Nosferatu di Eggers. A quanto pare, guardare un film horror è tanto sporco quanto ascoltare una canzone dance anni ottanta. Non a caso negli Stati Uniti si sono inventati il termine elevated horror (che tra l’altro finisce, insieme a tante altre definizioni, nel crogiolo dei generi di cui non sentivamo assolutamente il bisogno): perché dobbiamo sentirci superiori. Non possiamo guardare un horror per gli schizzi di sangue. No, noi siamo migliori e lo guardiamo per il sottotesto.
È da quando ho dodici anni che guardo film horror, ho visto le peggiori porcherie e tutti i capolavori. Quindi non solo amo il genere, ma credo anche di conoscerlo un pochino e sono piuttosto convinto che non ci sia bisogno di “elevarsi” per fare un buon film.
Prendo un altro esempio che mi sta particolarmente a cuore: Suspiria di Guadagnino. Non credo che servano dei teorici del cinema per spiegarci come mai non ha avuto lo stesso successo dell’originale. Ma se vogliamo provare a capirlo, alziamoci dal tavolo del bar e continuiamo la serata in un ristorante di alta cucina.
Ci accolgono dieci camerieri, ci fanno sedere e attendiamo il primo piatto: una rivisitazione dei tortellini in brodo. Arrivano tre tortellini, ripieni di fegato e coriandolo con una riduzione di brodo di fagiano. Guardiamo il piatto soddisfattissimi dei due stipendi spesi per prenotare un tavolo. E poi che dire? Sono davvero buoni, oltre che belli.
Sì, ma vuoi mettere una bella scodella di tortellini della nonna?

Suspiria e tortellini
Vale lo stesso con l’horror contemporaneo: si prende qualcosa di popolare, e si cerca di renderlo sofisticato. Se mi piacciono i tortellini, raggiungo l’apice del piacere quando me ne scofano mezzo chilo di quelli buoni fatti in casa. Se mi piace Suspiria, godo quando vedo i colori accecanti, le scenografie espressioniste (ci torneremo), le voci inquietanti e il sanguaccio rosso acceso. Dei sottotesti femministi e dell’analisi storica, me ne importa poco.
Non è che questo renda migliori o peggiori i tre tortellini di fegato. Sono solo due cose diverse. Alla peggio, rende peggiore chi se li mangia preferendoli alla ricetta classica perché la ritiene troppo da proletariato. Ma delle classi sociali parliamo un’altra volta, e anche dell’alta cucina. Ora torniamo al cinema.
Suspiria di Guadagnino mi è pure piaciuto, ma penso sia inappropriato sfruttare un titolo popolarissimo per fare un film che non ha niente a che vedere l’originale. O meglio: non ha niente a che vedere con le cose per cui l’originale è stato amato dal pubblico. Sì, lo so che è marketing. Ma date un’occhiata agli incassi e poi ditemi se ho ragione io o se hanno ragione i duecento responsabili del marketing di Suspiria.

Non tutti i remake vengono per nuocere
Torniamo a Nosferatu e all’espressionismo: quando ho visto per la prima volta il film di Murnau non sapevo neanche che cosa volesse dire “espressionismo tedesco”. Quello che ricordo di quella prima visione è difficile da spiegare. Ho avuto per tutta la durata del film la sensazione di essere in contatto con qualcosa di oscuro. E voglio dire, il Conte Orlok non è che sia così tanto inquietante visto con gli occhi di oggi. Eppure ho avuto la sensazione di trovarmi in una stanza buia e di guardare attraverso il vetro rotto di un abbaino, un antico mondo spettrale.
In fondo è questo l’espressionismo: il mondo descritto dal film non deve essere verosimile, deve solo contribuire a trasmettere una sensazione.
Ma non tutti i remake vengono per nuocere, infatti quando Herzog decide di prendere il suo principe della notte e inserirlo di forza nel Nuovo Cinema Tedesco, ci riesce piuttosto bene. Nonostante le atmosfere molto più rarefatte e qualche piccolo sottotesto per rendere il vampiro più umano, il film mantiene intatte quelle sensazioni della pellicola originale.
Cosa non funziona nel Nosferatu di Eggers
Perché Herzog sì e Eggers, no? Non saprei dirlo, forse sono soltanto nostalgico e guardo con troppo sospetto alla produzione contemporanea. Però ci sono un paio di cose che mi piacerebbe sottolineare.
Tanto per cominciare, se prendi il Conte Orlok e me lo trasformi in un cadavere con i baffi, non è un buon inizio. Io voglio gli incisivi a punta e le orecchie da pipistrello. Se togli il vampiro dal mondo della fantasia e cerchi di rappresentarlo con veridicità, finisci per farmi vedere un cadavere che da seicento anni cerca di tirare avanti senza marcire. E dovrebbe essere interessante o spaventoso?
Poi, lo so che ormai abbiamo la soglia dell’attenzione di un pesce rosso, però quei virtuosismi di camera (finti, praticamente tutti fatti in CGI) ogni cinque minuti di film, sono davvero molto stucchevoli. Dopo il grande lavoro fotografico di The Lighthouse, mi aspettavo più attenzione, anche filologica. In realtà molti movimenti di camera sembrano essere stati inseriti giusto per essere sicuri che il pubblico non si addormentasse o per vincere la gara di celolunghismo.
Diciamo che proprio in generale, ho trovato noioso in questo Nosferatu l’eccessivo utilizzo di effetti speciali, laddove si potevano utilizzare in maniera più efficace degli effetti pratici. Anche le scenografie, punto chiave nel cinema espressionista, finiscono per essere ricreate parzialmente in CGI, venendo eccessivamente ripulite da tutta la sporcizia che le avrebbe rese interessanti. Ad esempio, per le strade non c’era neanche una merda di cavallo, così, per dire.
Io lo so che sia la fotografia che la scenografia hanno ricevuto una candidatura agli Oscar, ma per ricordare quanto siano attendibili in termini qualitativi questi premi, nel 2019 c’era Black Panther candidato come miglior film. E non aggiungo altro.
Poi c’è il fattore di “elevazione”, con Ellen e le sue pulsioni sessuali messa al centro della narrazione, che in realtà non è niente di nuovo: tutti i film precedenti lo avevano già fatto, in maniera più o meno velata. Ma sempre per lo stesso discorso della soglia dell’attenzione, qua deve schiaffarcelo in faccia ogni quindici minuti circa. Deve farci capire in tutti i modi che questo non è un semplice horror, è qualcosa di più.
Tutto finisce per risultare piatto e poco interessante. Tutto a parte il pacco di Aaron Taylor Johnson, per questo ringraziamo il reparto costumi. Che ringraziamo inoltre anche per il lavoro svolto replicando alcuni costumi della versione originale.

L’elevated horror è una cagata pazzesca… circa
Non vorrei insistere troppo sul concetto, però credo che il problema sia che si sia inventato un termine per definire i film di Eggers, Aster e praticamente tutti gli horror prodotti dalla A24. Alla fine, con un genere, nascono anche dei canoni da rispettare. Perché ricordiamoci che quando si parla di produzioni di questo livello, non si parla di arte, ma si parla di industria. Il film deve, prima di tutto, vendere bene, tutto il resto è collaterale.
La cosa che invece funzionava bene in The Lighthouse, The Witch, ma anche in Hereditary o Babadook era quello di essere dei prodotti atipici: sul mercato mainstream non c’erano altre cose del genere. Togliendo questa unicità, hai tolto praticamente tutto.
C’è di peggio, ma anche di meglio
Dopo aver parlato male del film per quattro pagine, devo chiudere dicendo che in realtà mica è così brutto Nosferatu. Ma è proprio come la canzoncina che ascoltiamo mentre ci beviamo un cocktail: il riflesso sbiadito di un qualcosa di molto più vivido e interessante. Piacevole nel contesto giusto, ma già dimenticato dopo un giro di bevute.
Se volete vedervi qualcosa di interessante su Nosferatu, molto meno dimenticabile, date piuttosto una possibilità a L’ombra del vampiro di Merhige (il genio che ha diretto Begotten) con John Malkovich e (di nuovo) Willem Dafoe. Un film che mostra, in maniera molto romanzata, il dietro le quinte della produzione del film di Murnau. Meno “elevato”, ma molto più memorabile.
